Il dibattito critico intorno al film di Nanni Moretti ferve. E fa (abbastanza) bene alla cultura cinematografica italiana. Ovviamente le sfumature sono differenti, anche se la maggior parte dei recensori ha applaudito all’ultimo film del regista più rappresentativo dell’autorialità nazionale.
Quel che più importa, però – al di là delle posizioni che ciascuno esprime di fronte a Habemus Papam – è che un film italiano possa tornare al centro di discussioni e valutazioni di stampo culturale, sociale, identitario. Curiosamente, non esiste però nel dibattito pubblico il concetto di estetico. I film, ormai da tempo, sono sempre e solo simboli e sintomi per parlare di politica (nel senso più ampio del termine) o di costume. Anche quando, come nel nostro caso, il film di Moretti innalza il tono della discussione, rimescolando gli schieramenti intellettuali, sembra vi sia una sorta di pudore (o di censura preventiva) nel parlare di estetica e di gusto.
Sarebbe bello se qualche firma nota intervenisse non per spiegare perché Habemus Papam può o non può piacere ai cattolici, non per analizzare la rappresentazione della psicanalisi nel cinema, non per raccontare le reazioni al film delle persone “importanti”, ma per spiegare – con un bel corsivo dalla prima pagina, o magari con un commento promosso nelle pagine degli editoriali – in che modo il film gli è piaciuto, grazie a quali strutture narrative, in virtù di quali personaggi e forme di scrittura, in grazia di quali gesti di regia o sequenze esemplari. Insomma, quel che si faceva una volta. E che non si fa più, in un’epoca di comunicazione diffusissima e di giudizio moltiplicato all’infinito, ma senza più un’estetica pubblica.