FilmForum Udine/Gorizia 5-14 aprile 2011
Una vita ossessionata dalla ricerca
Se già martedì 12 aprile negli Incontri con il cinema italiano, assieme a Simone Fenoil, insegnante alla Scuola Holden, Giorgio Arlorio, sceneggiatore (Tepepa, Queimada, Il mercenario, Ogro) e insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia ci ha affascinato e conquistato, la fascinazione è continuata il giorno dopo nell’incontro regalato a Mediacritica.
È proprio vero, l’importante è sì la storia, ma ancor di più come uno la racconta. Lo sceneggiatore ci ha parlato di “Oggi” e di “Ieri”, in un fiume in piena di parole e di racconti, che hanno lasciato l’uditorio silente e ammaliato. Ci ha fatto una lezione di Cinema, ma non solo, di sceneggiatura, di critica, regalandoci delle riflessioni su come essere giovani e giustamente “faziosi” dal punto di vista di un “diversamente giovane”. Con una voce carica d’anni, ma piena di vita e d’amore per la cultura, con quest’onda di parole ha lambito e inondato lo spettatore, passando dai racconti del set di Full Metal Jacket, alla “suspence” di Milk, da Frozen River a La moglie del soldato, dalla proiezione in un circolo per anziani di Terra e Libertà ai film di Pasolini e Rossellini.
La prima questione posta ad Arlorio è stata quali tecniche di insegnamento utilizza al Centro Sperimentale di cinematografia.
In realtà non insegno al Centro Sperimentale, tengo dei laboratori. Comunque non credo nelle tecniche. Guai a seguirne una sola. Non sono contrario alle tecniche in sé, ma credo che bisognerebbe farne proprie diverse e non una sola. Insegno perché mi serve, mi piace e perché i ragazzi hanno un’età opposta alla mia. Grazie a loro continuo a ricevere, mica a dare. In un laboratorio, ad esempio, ho usato un esercizio in cui gli studenti sceglievano delle foto e, in base ad esse, recitavano una parte; ne venivano fuori delle cose fantastiche. Tutto serve a narrare. Esistono persone con nutrimenti culturali tutti diversi, è importante tenerne conto e portarli in tutto ciò che si fa.
Come è arrivato alla scelta di fare lo sceneggiatore e com’era il Cinema allora?
Ho scelto di fare lo sceneggiatore perché ho fatto il montatore. Il fatto di attaccare la pellicola era una questione di ricerca. Guai a non sfruttare una sequenza, a diventarne vittima. All’inizio ho scritto racconti e Pavese dopo averli letti me li ha fatti pubblicare – in quel periodo Pavese, Vittorini ed Einaudi avevano sviluppato una ricerca che ha portato alla creazione della collana “I gettoni” che conteneva i lavori di quelli che poi sarebbe diventati i grandi –, questa cosa portava al cinema. Allora si facevano parecchi film perché la pellicola si “accattava”. Alla Lux c’era Gualino, uomo di estrema cultura che “faceva l’industria culturale”. Il cinema di successo portava ad una freschezza di linguaggio. Si creavano delle botteghe che producevano frammenti di spinta propulsiva. Gli sceneggiatori non si nascondevano agli altri, non avevano paura che gli altri rubassero loro i progetti, anzi se ne parlava moltissimo. In passato raccontavamo le storie a voce, addirittura le recitavamo per vedere se tutto andava bene.Lei ci racconta una temperie culturale molto diversa dall’oggi ma non per questo meno affascinante, anzi.
E del mondo in cui oggi viviamo e ci formiamo cosa pensa?
Adesso i ragazzi vivono in solitudine, una solitudine di massa, rumorosa. Io sono convinto – nonostante non tutti la pensino come me – che questa generazione di attori, registi, sceneggiatori, sia meglio formata della nostra. Il problema dei giovani è che magari scrivono una storia bellissima ma poi non sanno proporla a voce; vuol dire che c’è un problema nella storia stessa e a questo si aggiunge che il cinema è sonoro. Come ho già detto non credo nel metodo ma nella ricerca. Lo sceneggiatore deve offrire un viaggio che deve essere il contrario di un viaggio organizzato. Le storie non sono le trame; come diceva Scarpelli “Le trame si comprano dal tabaccaio”, si deve ottenere qualcosa che sovrasti l’immagine. Non parlate allo specchio, create botteghe, parlate con gli altri, con gli amici, Provate a fare un libro collettivo sulla critica, confrontatevi con i vostri amici, per farvi sentir dire anche “questa è una cazzata”. Provate anche ad essere schiaffeggiati; essere trattati come quelli che non contano niente fa bene.
Quale è secondo lei la responsabilità dello sceneggiatore, se ne ha una?
Parlare di responsabilità mi sembra eccessivo. Lo sceneggiatore ha solo il compito di scrivere, scrivere bene e basta, deve continuare a imparare a scrivere. Non deve mai dire sono arrivato – l’ambizione deve essere massima, la presunzione zero. Deve esporre tutto con sincerità, non si deve mai fermare, deve continuare ad avere non un’idea, perché a me non piace la parola “Idea”, userei “Congettura”, ecco, questa è una parola che mi piace. Credo in questo. La responsabilità nella sceneggiatura ma anche nella critica è solo una, dire ciò che si pensa con faziosità.
Ha parlato di “Ricerca”, è una parola ricorrente da prendere come consiglio non solo nel capo lavorativo, ma anche umano. Se dovesse trovare tre parole che possano servire a noi giovani critici, quali potrebbero essere?
Trovare tre parole, per me che sono un logorroico, è sempre difficile. Vedo che c’è molta rassegnazione. Abbiamo tutti accettato il degrado culturale incredibile in cui viviamo. Mancano le parole. Questa è perdita di vocabolario. Credo nella creatività, non nelle opere oggettive, non nella creatività oggettiva e quindi anche non nella critica oggettiva. Il tentativo di essere oggettivi toglie vita. Io credo, se fosse possibile, in una dichiarata e trasparente faziosità. Un critico secondo me deve dare emozioni perché una recensione è prima di tutto una bella opera letteraria. La critica dovrebbe contenere di più “la ricerca di ricerca”; Sergio Amidei aveva detto “non dobbiamo aspettare una terza guerra mondiale per far fare un film a Rossellini”. L’oggettività nella creatività è una cappa, porta a delle opere non libere. Le storie sono le persone. Il mondo di oggi è frastornato e le persone, le parole si trasformano in santi e alla fine, nei film, questi santi diventano solo dei santini. I santini sono noiosi, dopo un po’ stancano; secondo me, la critica si comporta un po’ così, è una critica meno utile, meno polemica, meno faziosa. La ricerca di creatività è diventata schematica, è diventata una palla al piede.
Questa settimana esce Habemus Papam, il nuovo film di Moretti. In casi come questi, quando esce un film di un grande regista, il critico come deve comportarsi secondo lei?
Criticarlo. Esce un film con cui non sei d’accordo, devi dirlo e al tempo stesso devi criticare l’opera. Se non lo fai è come se ti tagliassi una parte del testicolo. Non bisognerebbe mai essere neutrali. L’estremismo non va perseguito a tutti i costi, però un minimo di ricerca sì. Anche l’analisi ad esempio favorisce lo sviluppo della creatività della ricerca. Ho letto un bellissimo libro scritto da Gianni Amelio dove lui fa delle analisi. Ti fa fare delle vere scoperte.
Ci sono dei film o delle sceneggiature del cinema di oggi che le sono piaciute particolarmente?
Peter Morgan, quello che ha scritto The Queen e Frost/Nixon, mi piace, è bravissimo, adesso ha fatto un altro film ma non vado a vederlo perché ho paura di restarne deluso. Ha fatto in realtà dei film che sono più dei documentari. La società che esprime dei talenti non ha barriere, è un paese che si racconta, che sogna di documentarsi. Un altro film che mi ha conquistato è Il divo, soltanto dopo averlo visto, sono andato da Sorrentino a chiedergli “come ti è venuta l’idea?” “Dai discorsi di Andreotti, una frase, attraverso un frammento di frase”. Da questo gli sembrava nascesse un personaggio. Il film è nato così. Non è molto diverso dalla nascita del mostro Frankenstein. Il divo è il film dell’iperrealismo. Come per certi versi Il caimano. Pensiamo alle scene del tribunale di questi giorni, non sono proprio come quelle del film? Questi sono film che colpiscono. Il regista non deve dare la realtà ma deve puntare a dare credibilità.