Once Upon a Time in Massachusetts
C’era una volta il tempo.
Quello inesorabile della “Grande Madre”. Quello incalzante e ritmico del Sole e della Luna, del sonno e della veglia, del lavoro improrogabile e del prezioso ristoro, del crepuscolo indolente e del risveglio aurorale. Quello, insomma, che non c’era da ingegnarsi per decidere come riempirlo.
Ecco, in quel tempo lì un film come Frozen non avrebbe avuto senso. Ne ha molto adesso, però, se persino Adam Green depone l’accetta dello splatter palustre (Hatchet, Hatchet II) per scalare le vette del thriller montano, l’ennesimo, a questo punto, in cui all’azione spiccia in un lasso ristretto subentra un’immobilità smodatamente protratta.
La sfida, dei personaggi come del regista, è sempre la stessa: sfruttare al meglio il (troppo) tempo a disposizione procastinando sapientemente la fine. Ci provano stavolta tre giovani sciatori – audaci quanto basta, stolti come conviene – irrimediabilmente bloccati su una seggiovia con la notte che incombe e qualche attrito da appianare. Tutto intorno, soltanto Natura. Che sia sconfinata come in Open Water (C. Kentis, 2003) o “inamovibile” come in 127 Ore (D. Boyle, 2010), quest’ultima, per qualche motivo, non sembra più a misura d’uomo. E’ una sproporzione esplicita e pervasiva, tra la leggerezza delle azioni umane e la gravità delle conseguenze, come se, disinnescato il carosello frenetico della civiltà, la ruota fatale dei cicli naturali manifestasse il suo moto ineluttabile.
Le vittime designate mancano ormai di ogni istinto originario, tanto da non saper più distinguere i gesti salvifici da quelli, deleteri, indotti dalla cultura (Parker rinuncia al guanto per la sigaretta).
Green ne traduce disarmo e squilibrio attraverso la progressiva svestizione degli strumenti più familiari, di pari passo con la metamorfosi delle inquadrature che da simmetriche e lineari si fanno oblique e accattivanti. Altrettanto ambigua è la colonna sonora, capace di trasporre la natura anfibia di un thriller venato di pulsioni voyeuristiche alternando sinfonie patetiche allo sciaguattare della carne maciullata o allo scricchiolio delle fratture esposte.
L’inquietudine maggiore deriva, tuttavia, dal richiamo opportuno alle paure ancestrali, da sempre in bilico tra repulsione istintuale e tradizione simbolica da fiaba nera. Se il freddo evoca assenza di fuoco interiore, sommando la morte creativa/affettiva al congelamento fisico, il buio rimanda all’inconscio, all’irrazionalità delle fobie, nonché al pericolo effettivo dei predatori che vi si annidano. A proposito… chi ha paura del lupo cattivo?