Arte e vita
Soffia un vento di profonda libertà nell’ultimo film di Marco Bellocchio. Per la sua natura fertile ed evocativa, Sorelle Mai sembra fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. Struttura narrativa insolita e tutt’altro che lineare, il film si compone di sei episodi, girati tra il 1999 e il 2008.
Frammenti di vita della famiglia Mai, al centro dei quali si trovano le relazioni tra Sara (Donatella Finocchiaro), giovane attrice in cerca di successo a Milano, e la sua bambina Elena (Elena Bellocchio), che viene cresciuta a Bobbio dalle due anziane zie (Letizia e Maria Luisa Bellocchio).
Ed è proprio a Bobbio, nella casa di famiglia, che spesso fa ritorno Giorgio (Piergiorgio Bellocchio), fratello di Sara, giovane inquieto e inadeguato, diviso tra la volontà di lasciare il paese d’origine per inseguire i propri sogni e l’incapacità di emanciparsi fino in fondo da esso. Appassionato e malinconico, Sorelle Mai richiede allo spettatore un approccio di tipo esegetico. Ingaggia un intenso dialogo tra arte e vita che procede per accenni: lavorando sui contrasti cromatici e indugiando sui volti dei capacissimi attori, il film suggerisce implicitamente un nuovo potenziale per “fare cinema”. Risultato dei lavori prodotti all’interno dei laboratori cinematografici estivi tenuti dal regista nella sua città natale, questo progetto risale a più di dieci anni fa. In gran parte girato prima di Vincere, esso affonda le sue radici nello spiazzante I Pugni in Tasca, film d’esordio di Bellocchio. Dell’intera parabola artistica dell’autore, Sorelle Mai trattiene la linfa vitale e la capacità di declinare in modo sempre diverso e coerente il suo il vigore artistico e umano. Forza che in qualche modo questo film doma, trasforma, trasfigura.
Nella struggente sequenza finale, in cui (forse) vediamo Giorgio cimentarsi come regista. Increduli assistiamo alla scomparsa dell’amico Gianni Schicchi nelle acque della Val Trebbia e ci chiediamo: dove? Dove sia il cinema, dove quelle profondità in cui esso interseca la vita, catturandola, per restituirla come su un lenzuolo. Quel lenzuolo che sovrasterà i corpi straziati nell’ospedale militare di Vincere con il Christus di Antamoro. Schermo che ci ricorda come il cinema per Bellocchio pervada la vita, la attraversi, ci stia sopra, sotto, attorno. Come entrambe, l’arte e la vita, vadano instancabilmente cercate, perse, ritrovate. Loro le vere sorelle di quest’opera poetica e feconda.
Così come Shakespeare mise in scena nella sua ultima grande opera (La Tempesta) il suo definitivo commiato dall’arte deponendo gli strumenti del mestiere nelle profondità degli abissi (la bacchetta magica di Prospero), allo stesso modo Bellocchio. Il suo addio al passato è però solo in parte conclusivo. Le profondità in cui si inabissa l’uomo in frak ci parlano in realtà di un cambiamento di direzione. Della insaziabile necessità di cercare e trovare, ancora. Non immagini o idee. Piuttosto quell’immagine, quell’idea non ancora catturata.