DVD – SPAGNA, SVIZZERA 2011
Un capolavoro invisibile per 45 anni
Dentro Falstaff c’è un mondo intero in cui l’umanità si riconosce: chi per le debolezze e la letizia del peccare, chi per la codardia, chi per la complessità di misurarsi con la Storia, chi per la bonaria necessità con cui si assolve dalle azioni balorde.
Orson Welles ha sempre pensato che Falstaff non fosse un personaggio comico.Più rileggeva i versi di Shakespeare e più si convinceva che la comicità serve a Falstaff soltanto per nascondere una vita tragica con le parole della leggerezza. Perché Falstaff è sopra ogni altra cosa un attore, che agli occhi degli altri si fa deridere per la sua mole e per la sua incontinenza, ma senza la presenza di un pubblico conserva la consapevolezza della propria finitudine e la malinconia degli sconfitti. In lui Welles rivede se stesso e le sintesi di tutti i suoi personaggi cinematografici, troppo umani e troppo vicini al senso della vita intesa come esperienza piena e grandiosamente mortale. Per questo non poteva fare a meno di filmarlo, di ritornare a Shakespeare per un’ultima volta dopo gli intensi adattamenti di Macbeth e Otello, come se la maschera di Falstaff fosse una sfida definitiva al suo sguardo d’autore per misurare la miseria e la nobiltà degli uomini.
Trascinato da quest’interpretazione tragica, il Falstaff di Welles accantona le squisite farse delle Allegre comari di Windsor e si concentra principalmente su Enrico IV – Parte I, Enrico IV – Parte II e sulla famosa terza scena del secondo atto di Enrico V per l’epilogo. È un’intuizione geniale, perché il vero cuore del dramma diventa il rapporto tra Falstaff ed Enrico V, sospeso tra amicizia, immaginario rapporto padre-figlio, ma anche storia di un’irraggiungibile distacco sociale. Nella prima parte Enrico V è ancora un principe che dissipa la giovinezza nelle locande badando soprattutto alla buona educazione amorale di Falstaff, fino a quando una ribellione dei nobili inglesi lo riporterà alla sua responsabilità morale di futuro sovrano; Falstaff invece si dedica a un’unica trama ininterrotta: intascare le esenzioni dei disertori, rapine maldestre, raggiri, menzogne troppo grosse, sherry, amabili donnacce, e l’amicizia col principe.
Nella seconda parte, dopo la morte del padre, il principe diventa re, rinnegando pubblicamente Falstaff e un passato ingombrante; ma Falstaff non resiste a un simile dolore..
A separare le due parti c’è un intermezzo che sembra scritto dalla storia del cinema moderno, in cui le forze del re e l’esercito ribelle si misurano in una battaglia avanguardistica, tanto da costituire un piccolo film dentro il film: mai come in questa sequenza Welles è stato così violento, mai come in questa sequenza il montaggio diventa straordinaria occasione di verità, riducendo la guerra a esasperata caduta di corpi, e violentando la visione distaccata, innocente e “inviolabile” dello spettatore. L’effetto acceca e disorienta, anticipando i traguardi lirici nella descrizione della guerra che raggiungeranno Akira Kurosawa in Ran e Terrence Malick in La sottile linea rossa, ma soprattutto dimostrando la capacità profetica del regista di Quarto potere di vedere un cinema che non appartiene a nessun presente – neanche al nostro, un cinema che sfida costantemente l’occhio umano e si pone sempre al di là di qualsiasi limite.
Anche senza questa sequenza, Falstaff sarebbe uno dei film più moderni che si siano visti; o forse sarebbe meglio dire non visti, data l’aurea maledetta che lo circonda: realizzato in circostanze critiche come accadeva quasi sempre a Welles (si tratta di una produzione svizzero-spagnola a basso budget e con mezzi insufficienti per sostenere un film epico), Falstaff è rimasto inosservato in terra americana nonostante un premio speciale a Cannes e l’ammirazione di molti registi (Martin Scorsese e soprattutto John Carpenter), mentre in Italia è stato semplicemente irreperibile fino ad oggi. Che sia inevitabile per un immenso perdente escluso dalla Storia, dal potere e dagli affetti, essere dimenticato anche dalle memorie del cinema? In fondo non è altro che l’ultima beffa riservata alla malinconia di questo personaggio. Poco importa, perché la travagliata odissea e il tempo trascorso non hanno intaccato minimamente Falstaff, né le sue repentine carrellate laterali che agitano con splendidi piani-sequenza le feste dentro una locanda, né il suo montaggio ritmico che scorre con la velocità dello stato d’animo dei personaggi, né i lunghi silenzi del protagonista racchiusi nei primi piani deformati dal grandangolo. Un capolavoro, ma soprattutto un’esperienza estetica irripetibile con cui il cinema è anche teatro, letteratura, unità di forma e contenuto, metronomo partecipe degli errori e del tempo degli uomini, grande momento di visione e visione di piccoli momenti. O forse molto di più: un gesto universale.