I festeggiamenti di questi giorni, a noi che ci occupiamo di cinema, pongono alcune questioni. Il cinema italiano è ancora in grado di parlarci della nostra identità sociale e culturale? O meglio: è in grado, come un tempo, di esserne parte? La sensazione, diciamo la verità, è negativa.
Il cinema italiano contemporaneo può talvolta assumere aspetti di riflesso – penso per esempio alla commedia contemporanea, che un giorno certamente verrà studiata per come vi si ritrovano nodi politici e socioculturali dell’era Berlusconi. Tuttavia, manca un cinema che non sia a rimorchio dell’agenda mediatica, e che sia esso il primo a proporre nuove forme di identità. Non mancano autori, come Garrone, Sorrentino, Bellocchio, Moretti, che si occupano di farlo. Quel che preoccupa è che ci troviamo sempre a parlare degli stessi nomi, e che i “giovani” autori di fama internazionale siano di fatto solo un paio. Probabilmente la forma-cinema esprime una crisi profonda, in cui la trasmissione di saperi e lo scambio di passioni artistiche si limita, oggigiorno, alla difesa sindacale della categoria. Sacrosanta, ma soffocata nel suo stesso impegno quotidiano di contrasto alla legislazione.
Piccolo aneddoto personale. In un’anteprima con la stampa di Amici miei – come tutto ebbe inizio, Placido ha attaccato a testa bassa tutti i critici e i giornalisti, dicendo che non sanno fare il loro mestiere, che si devono vergognare a contestarlo per la sua partecipazione al film, che questo è il cinema di un produttore privato che porta soldi e posti di lavoro, e che – piaccia o non piaccia – è il pubblico il punto di riferimento. Sostituite alla parola “pubblico” la parola “elettori”, alla parola “produttore” il termine “imprenditore”, proiettate questa strategia di aggressione verbale sullo sfondo della politica: come si potrà notare, il berlusconismo fa proseliti anche tra i protagonisti della battaglia contro i tagli del premier.
C’è poco da festeggiare.