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Hunger

lunedì 30 Aprile, 2012 | di Eleonora Degrassi
Hunger
In sala
1
Voto autore:

Il vangelo secondo Bobby Sands: libertà, vo’ cercando
Irlanda, 1981. Nella prigionia, nella rivolta, nella fame – per/in nome della libertà – Amen.
Questa è la fede di Bobby Sands soldato dell’IRA, detenuto nel carcere nordirlandese di Maze, protagonista di Hunger, film d’esordio del 2008 di Steve McQueen, artista poliedrico, premiato in una “sconvolta” Cannes con la “Camera d’Or” nella sezione Un Certain Regard, e ora nelle sale italiane.

Il film è certamente duro, ma in maniera struggente, è violento, come la materia trattata, non si capisce allora perché in Italia la pellicola, premiata non solo nella kermesse francese, esca direttamente in dvd – nel 2009. McQueen sviscera l’esistenza di Bobby (meravigliosamente interpretato da Michael Fassbender) in prigione, racconta le botte, le perquisizioni, il sangue raggrumato, le pareti sporche, intrise di ideali mandati a quel paese, di escrementi e cibo stantio.  C’è l’Irlanda per la quale ribellarsi, sotto la pelle dei prigionieri che pulsa, sotto la loro lingua che è pronta a urlare, nel loro pugno che è pronto a partire. Sono semplici reclusi paramilitari, l’Inghilterra ha abolito lo stato di prigionieri politici. I detenuti allora si ribellano, scioperano, ha inizio la dirty e la blanket protest e sopportano umiliazioni, sevizie, vissute giorno dopo giorno. Nella prima parte del film, con poche parole, si mette in scena la violenza, il dinamismo del dolore e dell’orrore, la dicotomia umano (prigioniero) – inumano (poliziotto), il corpo nudo, percosso dai secondini, il corpo vestito, orgogliosamente chiuso nella propria cella/universo;  tutte le scene sono colpi bassi inferti allo spettatore, la crudezza, l’impeto irruente del “cineocchio” che entra negli antri nascosti della prigione, negli anfratti reconditi della mente è un detonatore pronto a scoppiare in un urlo disumano di paura e rancore.  E dopo i calci, i pugni, anche noi siamo Bobby, ci sentiamo perquisiti, portiamo i segni dei manganelli e della “mano della legge”.  Diventiamo partecipi del fulcro del film, il dialogo tra il prigioniero e il “suo sacerdote”, e comprendiamo ogni cosa, ciò che è successo e ciò che succederà, prima Bobby era solo uno dei tanti, uno degli “ospiti dell’ala H di Maze”, ora sappiamo bene chi è, la sua missione, la sua fede:  farebbe di tutto per la libertà anche morire, farebbe di tutto per l’Irlanda anche soccombere.  Quello che per il prete è suicidio, per il detenuto è questione vitale, quello che per il prete è pazzia, per il detenuto è atto dovuto alla propria patria.  Se il prelato è prima di tutto uomo con passioni, emozioni terrene, Sands già da bambino è esempio di moralità, di ricerca di giustizia, convinto agnello sacrificale, in nome di una giusta causa. L’impeto salvifico verso quel giovane puledrino per la cui morte da bimbo si era fatto punire è lo stesso che lo spinge ad iniziare uno sciopero della fame il cui esito è scontato; c’è la fermezza della fede politica e libertaria dell’idealista rivoluzionario contro la cinica logica del prete che lo invita a pensare bene a quella mortale follia.  Nel dialogo di ventidue minuti, il nostro orecchio è costretto a riabituarsi alla parola, dopo un lungo istante fatto di assordanti immagini, la camera fissa ci mostra i duellanti, prima seduti l’uno di fronte all’altro, poi vediamo solo il vincitore dello scontro dialettico, Fassbender, “apostolo dei giorni nostri”, che ci porta a comprendere la lettura filosofico/religiosa di ciò per cui vale la pena vivere. Nella terza parte c’è ancora il silenzio, ma quello urlato di immagini/rantolo prima della fine, che monitorano la decomposizione del corpo, icona delle stazioni della via crucis, e quella massa ulcerata, scheletrica, diventa martire; i sensi si perdono, la vista, l’udito non servono più, esplode dentro solo il credo e il desiderio di Libertà. C’è unicamente lo spazio per il ricordo di sé, di ciò da cui tutto è iniziato, l’albero “impressionato” sulle sue ossa, il volo dei corvi nel cielo azzurro dell’infanzia, sono la cosmogonia di un “credente”.

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