filmforum, Udine-Gorizia 20-29 marzo 2012
La camera clandestina
Finestre come occhi macchinici da Grande Fratello che controllano l’isolamento di alcune ombre, di fantasmi somali fuggiti dal loro dolore per incontrarne uno più indifferente.
Si apre così l’opera Stanze dei fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio, con la camera fissa che lentamente scopre i volti degli uomini e della donna che hanno prestato la loro voce e la loro fisicità a questa storia sbagliata, inaugurata dal colonialismo fascista e terminata, almeno per il momento, con l’infinita condizione di rifugiati politici. I De Serio partono dal presente, da quella che una volta era la caserma “La Marmora” a Torino, in via Asti, dove la Guardia Nazionale Repubblicana portava i partigiani, e gli anti-fascisti in genere, per torturarli e ucciderli. In questo relitto architettonico di fine Ottocento, i De Serio entrano in modo clandestino, lasciando spazio alla parola di chi ora vi abita, o meglio vi è detenuto: persone provenienti da quella regione di guerra che è la Somalia, sbarcati da uno dei tanti barconi della speranza approdati sulle coste di Lampedusa, ai quali viene riconosciuto lo status politico di rifugiati che li condanna, in poche parole, ad una vita da pellegrini invisibili, sepolti vivi dentro mura senza speranza.
Le 17 stanze di cui è composto il film si aprono con le testimonianze vive di questi pellegrini che nel loro incessante viaggio fra Italia, Francia, Pesi Bassi, Svizzera, sono stati lentamente privati della loro dignità di uomini e della speranza in un qualsivoglia futuro che non sia fra le bombe del loro paese o nella fredda accettazione di quello che attualmente li ospita.
Dal ragazzo che ripete ossessivamente “le cose non sono come speravo”, che quasi le vorrebbe gridare se il silenzio assordante dell’ex caserma non lo sovrastasse, tappandogli la bocca, al compagno di sventura che chiama in causa l’allora ministro degli Esteri, il lampadato Franco Frattini, affinché trovi il tempo di ritrovarsi con i rifugiati per prospettare una soluzione che non sia più momentanea, fino alla poetessa Suad Omar, mediatrice culturale e madre tutelare degli altri personaggi, che dedica al figlio un componimento struggente, chiusa fra le mura tombali di una stanza che il tempo ha ridotto a brandelli: tutti appaiono come silhouette disegnate dal diaframma analogico della macchina da presa.
Il filo storico che lega queste prime stanze procede a ritroso toccando la Convenzione di Dublino del 1990, che uno di loro definisce ” l’inizio del colonialismo”, o almeno del nuovo, silenzioso, colonialismo capitalista, per poi precipitare dentro la storia partigiana, quella stessa storia oggi dimenticata, fatta di nomi e cognomi, di vittime e carnefici, di sentenze scritte con “la penna d’oro della Storia”, questa volta scritta con la maiuscola. Il cerchio si chiude, dai rifugiati ai partigiani il passo è tanto breve quanto pericoloso. A nessuno viene data l’incombenza di chiudere, da solo, l’opera dei De Serio, poiché il racconto deve rimanere corale e deve prolungarsi oltre la sua fine. La macchina da presa si sofferma su ognuno di loro, accogliendo il loro grido, la loro parola alle volte lontana e altre così vicina da poterla sfiorare. L’immagine, il cinema, si fa simulacro, unico vero rifugio in grado di liberarli.