The Walk of fame
Un uomo, nudo, il suo corpo impregnato di sudore e sangue raggrumato, dentro una gabbia, pronto ad uno scontro impari, uno contro tutti. “Io mi chiamo Charles Bronson e per tutta la vita ho cercato di essere famoso”.
Così si presenta Michael Peterson/Tom Hardy (Inception, Marie Antoinette) all’inizio di Bronson, film di Nicolas Winding Refn (autore anche della trilogia Pusher, Fear X, Valhalla Rising), realizzato nel 2008, uscito in Italia direttamente in dvd, nel novembre 2009. Refn realizza un film tratto da una storia vera, quella di Charles “fottuto” Bronson – “il detenuto più pericoloso d’Inghilterra” – , che ha vissuto ben 34 anni della sua vita in carcere, – di cui 30 in isolamento. Bronson è un’opera viscerale, istintiva, “fisica” che racconta la permanenza in prigione di un uomo e il suo percorso verso la celebrità, opera che non ha paura di descrivere il “destino naturale”, la “vocazione” per la Violenza di una persona “normale”. Questa è una favola nera, un’agiografia di un antieroe, di una star della violenza, di un uomo multisfaccettato: è Michael, Mickey, Charles e Charlie, è figlio, nipote preferito, oggetto del desiderio di uomini e donne; ma lui vuole essere solo una star. Il regista modella il racconto come uno dramma in tre atti – il nostro di fronte ad un pubblico “recita” le tappe importanti della sua vita (la macchina da presa inquadra spesso il protagonista frontalmente, mentre fa il suo monologo); i 69 giorni di libertà (è a disagio e spaesato, non conosce e non capisce le regole che ordinano il vivere di tutti i giorni fatto di rapporti umani e di sentimenti, sereno solo negli incontri clandestini di boxe); il ritorno in prigione e la fuga nell’arte.
Il personaggio interpretato magnificamente da Hardy – che assomiglia in maniera sconvolgente al vero Bronson –con un fisico pompato e ingombrante, dotato di voce calda e trascinata ha delle potenzialità iconiche molto forti, occhialetti d’oro, baffi perfetti, pelato, deltoidi scolpiti, ricopre perfettamente il ruolo dell’uomo ultraviolento. Vive la prigionia non come un incubo, ma come una stanza d’albergo, un “posto divertente” dove mettere in mostra il proprio talento. Quella piccola “cellula” dà un senso di potenza e controllo al nostro giustiziere che sicuro di sé, del suo corpo e della sua “inclinazione”, si pompa per l’incontro camminando in cerchio, in una sorta di coazione a ripetere, facendo salire adrenalina e rabbia, mentre nello spettatore cresce sempre di più il senso di claustrofobico disorientamento e l’attesa per ciò che sta per succedere. La vita che scorre fuori, che lui percepisce dalle feritoie della sua “stanza”, lo spaventa; infatti la lontananza dalla cella che è il suo “spazio vitale”, il suo “respirare l’inferno” è un momento di rottura, una mancanza. È difficile non pensare, con le dovute differenze, ad Arancia Meccanica: l’indole violenta di un uomo bestiale e incontenibile, l’incapacità delle Istituzioni di redimere il colpevole, l’uso della “teatralità” (Bronson di fronte alla platea si dipinge il volto, si veste di nero; è meravigliosamente istrionico nella scena in cui truccato metà uomo-metà donna inscena il dialogo tra lui e un’infermiera) e della musica (da Verdi ai Pet Shop Boys, da Wagner ai Walker Brothers, da Delibes ai New Order). Il cineasta danese non punta il dito contro il suo protagonista, non dà giudizi, si concentra sulla sua personalità, su come Bronson si esibisce attraverso l’uso della forza per ottenere fama, sul rapporto arte/violenza (“fare della propria vita un’opera d’arte”): pensiamo alla statua umana dell’insegnante di pittura, a Hardy nudo e colorato di nero, novello bronzo di Riace, che chiede della musica come contrappunto al rapimento del suo “Pigmalione”, ai suoi stessi disegni che vengono inseriti e che prendono vita come un cartoon, le scene d’isolamento in cui il suo corpo, martoriato, insanguinato, diventa esso stesso opera d’arte, epifania dell’idea artistica di Refn: “Art is an act of violence”.